La favola di Ağdam

Damiano Benzoni

Articolo originariamente comparso in inglese su Futbolgrad

Giocavano in casa, ma non erano a casa. Ad Ağdam non era rimasto nessuno a celebrare, nel momento in cui la squadra di calcio cittadina conquistava il suo secondo scudetto dell’Azerbaigian battendo l’Inter Baku 4-1 grazie a una tripletta dell’attaccante brasiliano Reynaldo. Erano passati ventuno anni dall’ultimo scudetto del Qarabağ Ağdam – e dall’ultima volta che la squadra aveva potuto vedere la propria città e giocare di fronte al proprio pubblico allo stadio İmarət. Mentre il Qarabağ Ağdam si aggiudicava una storica doppietta campionato-coppa nel 1993, le forze armate armene stavano entrando nella città. Durante la battaglia lo stadio İmarət fu raso al suolo dai bombardamenti e di una città di quarantamila anime rimase solo un cumulo di macerie e memorie. Ora ad Ağdam İmarət è solo il nome di un cimitero. Il Qarabağ è una squadra sfollata, la sua città ormai deserta, derelitta e in disfacimento.

Recentemente il Qarabağ Ağdam è riuscito a uscire da anni di crisi finanziaria, vincendo il terzo titolo di coppa e qualificandosi regolarmente ai preliminari di Europa League. Nelle ultime quattro apparizioni nella competizione la squadra ha sempre raggiunto almeno il terzo turno di qualificazione, chinando la testa solo di fronte a squadre come il Borussia Dortmund, il Cercle Brugge, l’Eintracht Francoforte e il Twente. Gran parte del merito va all’allenatore Qurban Qurbanov, sulla panchina del club dal 2008, due anni dopo il suo ritiro da calciatore, mentre il supporto finanziario è stato garantito dal 2001 da Azersun Holding, una corporation del governo azero che opera nel settore alimentare e agricolo. Azersun è molto attiva in progetti di sostegno per i profughi del Nagorno-Karabakh e vede l’accordo di sponsorizzazione del Qarabağ come “un’altra dimensione nella strategia sociale aziendale della compagnia”. Il presidente di Azersun, Abdolbari Goozal, è anche presidente del club. Quest’anno il Qarabağ ha messo le mani sul titolo dopo aver registrato due serie di undici incontri senza sconfitte e mantenendo il primo posto dalla ventesima giornata fino all’ultima, la numero 36. Le loro partite casalinghe sono state disputate allo stadio Tofiq Bəhramov di Baku, un impianto che porta il nome di un arbitro e che sorge a 250 km da Ağdam.

La guerra in Nagorno-Karabakh, dove le etnie azera e armena avevano vissuto fianco a fianco per decenni, scoppiò nel 1988 mentre l’Unione Sovietica si avvicinava al collasso. Nonostante nel 1994 sia stato negoziato un cessate il fuoco, la tensione non si è mai sopita e l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh è un’exclave armena de facto indipendente in territorio de jure azero. A vent’anni dal cessate il fuoco circa trenta persone, civili inclusi, muoiono ogni anno uccise dai cecchini.

La repubblica autoproclamata ancora fatica a costruire il proprio calcio: i primi tentativi di stabilire una lega sono stati annunciati nel 2009, mentre la squadra nazionale ha debuttato nel 2012 pareggiando 1-1 contro la nazionale dell’Abcasia, un’altra repubblica autoproclamata il cui campionato di calcio funziona in piena indipendenza dal 1994. L’esordio casalingo, un mese dopo nella capitale Stepanakert, vide il Nagorno-Karabakh sconfiggere gli abcasi 3-0. Dopo quella partita l’allenatore Sargis Aġaǰanyan, intervistato da Asbarez, disse: “Questo è uno dei nostri passi più importanti del dopoguerra. Questa è la nostra unica possibilità di entrare nell’arena internazionale e stare sotto la nostra bandiera nazionale, con il nostro inno nazionale. È tutta un’altra cosa”. Le possibilità di riconoscimento attraverso il calcio sono comprese anche dal governo della repubblica, che stanzia circa settanta milioni di dram (circa 135 mila euro) di fondi per la nazionale ogni anno.

Da settimana prossima la nazionale del Nagorno-Karabakh disputerà il primo torneo della sua storia ad Östersund, in Svezia, dove andrà in scena la ConIFA World Football Club, che include una serie di rappresentative non riconosciute dalla FIFA, tra cui spiccano Abcasia e Ossezia del Sud. La partecipazione al torneo di una rappresentativa del Nagorno-Karabakh non è stata digerita dalla federcalcio azera, che ha reagito inviando lettere di protesta alla federcalcio svedese e alla FIFA, cercando di evitare la partecipazione della repubblica, nonostante l’evento non sia sanzionato dalla FIFA. L’ente organizzatore, la ConIFA, replicò che “senza giudicare la situazione politica o la dipendenza o indipendenza del Nagorno-Karabakh”, loro avrebbero continuato a insistere sull’invio della repubblica al torneo, in quanto il loro scopo è quello di dare “un’opportunità di rappresentare se stessi a regioni, popoli, minoranze, nazioni e territori isolati”. Per via del proprio status (il paese è riconosciuto da altre tre repubbliche autoproclamate e non riconosciute internazionalmente, l’Abcasia, l’Ossezia del Sud e la Transnistria), il calcio in Nagorno-Karabakh vive in uno stato di isolamento quasi completo e i suoi club e giocatori non hanno altre opportunità di giocare a livello internazionale. Per anni l’unico sfogo per il calcio del Karabakh fu il Leṙnayin Ġarabaġ, una squadra di etnia armena della regione che disputò il campionato armeno dal 1995 al 2006, giocando i propri incontri casalinghi a Erevan e ritirandosi nel 2007 dopo aver ottenuto una promozione in massima serie.

Il Qarabağ Ağdam giocò l’andata delle semifinali della coppa dell’Azerbaigian del 1993 contro il Turan Tovuz allo stadio İmarət il 12 maggio 1993. Ottomila persone assistettero a una vittoria 1-0, decisa da una rete di Yaşar Hüseynov. Fu l’ultimo incontro mai disputato nella città di Ağdam. Il Qarabağ vinse la gara di ritorno 2-1 e il 28 maggio vinse la finale a Baku, grazie a una rete di una delle leggende del club, Müşfiq Hüseynov, durante i tempi supplementari. Due settimane più tardi l’esercito armeno cominciò a bombardare la città con fuoco d’artiglieria, carri armati e missili Grad. La battaglia di Ağdam durò un mese e mezzo e costò la vita a quasi seimila azeri. Ağdam cadde il 23 luglio: cinque giorni prima il Qarabağ aveva vinto la semifinale dei play-off scudetto contro il Turan ai supplementari, di nuovo grazie a una rete di Yaşar Hüseynov. I giocatori furono informati della caduta della città solo due giorni prima della finale di campionato, disputata il primo agosto. Un’altra vittoria 1-0, contro il Xəzər Sumqayıt, di nuovo grazie a una rete di Yaşar Hüseynov. Non ci furono festeggiamenti: dopo la finale la maggior parte dei giocatori tornò ad Ağdam, in cerca dei propri amici e familiari.

Ağdam fu tra le città che soffrirono di più nel conflitto del Nagorno-Karabakh. Fino all’ultimo, il Qarabağ Ağdam rimase vicino alla propria comunità. Nel febbraio 1992, dopo il controverso massacro di Khojaly, uno degli eventi più brutali e discussi dell’intero conflitto, alcuni giocatori chiesero al comando militare della città di potersi unire al fronte per difendere Ağdam. Il comandante rifiutò l’offerta: il lavoro dei calciatori era giocare a calcio e permettere alla gente di pensare a qualcosa di diverso dalla guerra, almeno una volta a settimana. Fino al 12 maggio continuarono a giocare ad Ağdam, sospendendo gli incontri solo quando i missili si avvicinavano troppo allo stadio İmarət.

Nei minuti finali dell’incontro vinto 4-1 con l’Inter Baku, decisivo per il titolo, l’attaccante Vügar Nadirov entrò in campo come sostituto. Nadirov è nato ad Ağdam nel 1987 e suo padre Ərşad morì in battaglia quando lui era solo un bambino. Vügar non è l’unico della famiglia coinvolto nel calcio: lo zio Adil, fratello di Ərşad, è stato allenatore del Qarabağ. In un’intervista con il sito di sport azero Qol.az, Adil disse che il suo sogno era di poter rivedere Ağdam ancora una volta: “Per grazia di Allah, tornerò a visitare la tomba di mio fratello Ərşad”. Come Adil, trentamila persone sognano di poter rivedere Ağdam ancora una volta, mentre vagano da venti anni per l’Azerbaigian in cerca di un posto da chiamare casa.

Il dramma degli sfollati e dei rifugiati è uno degli aspetti più tragici, per entrambe le parti, nel conflitto del Nagorno-Karabakh. Le stime sono di circa 600-650 mila IDP (Internally Displaced People, sfollati che non hanno varcato un confine internazionale) e 200 mila rifugiati in Azerbaigian, 350-400 mila rifugiati in Armenia e quindicimila IDP nella repubblica autoproclamata. Secondo una statistica del 2008, un azero su otto è uno sfollato o un profugo di guerra; un rapporto simile a quello che si ottiene confrontando il numero di rifugiati di guerra armeni con il totale della popolazione del paese. Per via della propria storia e grazie al fatto di essere l’unica squadra dal Nagorno-Karabakh impegnata nella Premyer Liqası, il Qarabağ è divenuto un simbolo per gli sfollati dalla guerra. Il suo supporto non si ferma ai profughi della regione di Ağdam, ma all’intera popolazione di ottocentomila rifugiati e IDP del Nagorno-Karabakh. Il Qarabağ non è l’unica squadra supportata da una popolazione sfollata nel Caucaso: lo Spartaki Tskhinvali, impegnato nell’Umaglesi Liga georgiana, ha una risonanza simile per i georgiani costretti alla fuga dai conflitti che hanno colpito l’Ossezia del Sud nei primi anni ’90 e nel 2008.

Anche la squadra ha subito perdite durante la guerra: l’ex allenatore e giocatore Allahverdi Bağırov si arruolò come volontario e divenne un comandante rispettato, grazie al salvataggio di diverse vite durante il massacro di Khojaly. Il reporter di guerra azero Emin Eminbeyli ricorda: “Eventi straordinari avevano luogo durante gli scambi di prigionieri. […] Allahverdi Bağırov abbracciò uno dei prigionieri armeni e, guardando dritto in camera, disse che quell’uomo per diversi anni era stato un suo compagno di squadra. Nel momento dello scambio, il soldato armeno disse ad Allahverdi che sperava che non si sarebbero mai più trovati su fronti opposti”. Bağırov morì il 12 giugno 1992, vittima di una mina anti-carro. Divenne un eroe nazionale, ma ottenne rispetto anche dall’altra parte della barricata, secondo il ricordo di Eminbeyli. Quando venne a conoscenza della morte di Bağırov, il comandante armeno Vitalik contattò i soldati azeri via radio, chiedendogli di confermare la notizia e maledicendoli: “Come avete potuto non salvare un tale uomo?”.

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